ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Osvaldo Bagnoli

"We could steal time, just for one day, we can be Heroes, for ever and ever" ("Potremmo rubare un po' di tempo, per un solo giorno possiamo essere Eroi, per sempre"), questa che leggete è una strofa di "Heroes" uno dei testi più coinvolgenti del duca bianco, al secolo David Bowie. Pensando a Osvaldo Bagnoli queste parole sembrano calzare a pennello, su un uomo che ha costruito la sua carriera e la sua vita sull'essere eroe, seppure di provincia.
Il mago della Bovisa, così era soprannominato Bagnoli, ha dato lustro ad una città come Verona, vincendo da allenatore uno storico scudetto nel 1985 e prima, da calciatore, ha regalato alla Spal stagioni importanti in serie A.
Uomo semplice e rimasto ancorato ad uno stile raffinato e signorile, eroico tornando al testo di Bowie che, ripensando ai tempi attuali, diventa demodé per chi è immerso in questo clima di veleni e polemiche ad arte, in cui far vivere gli spettatori giorno dopo giorno.
Bagnoli ha vissuto la sua vita nel calcio basando tutto sul rispetto e sul lavoro.
Non ha mai sentito il bisogno di urlare per far valere le sue ragioni, preferiva che fosse il campo a parlare per lui. Erano tempi in cui il calcio era vissuto in modo diverso, meno esasperato.
Quando il sistema si è avvitato su stesso e non c'era più quel clima che l'ha appassionato, Osvaldo Bagnoli ha detto basta. Non era più il suo tempo. L'eroe di un'Italia e di un calcio vissuto con quell'aroma sincero ha deciso che fossero altri ad essere protagonisti. Lui aveva già dato.
L'intervista al "Mago della Bovisa" ci ha fatto sorgere una riflessione che i 52 appuntamenti precedenti di "Mi ritorni in mente" hanno accentuato, divenendo un tratto distintivo di questo spazio: l'essere gentiluomini dei nostri ospiti.
Proprio questa loro caratteristica li porta ad essere poco televisivi, ma i loro racconti hanno sempre quell'aurea di magico e a tratti irreale. Non di rado la Rai rispolvera dal suo archivio vecchie interviste e quello che maggiormente colpisce di questi protagonisti di un calcio, per così dire diverso, è proprio il loro aspetto umano e la loro disponibilità a vivere quei momenti in cui lo sport assumeva i contorni di un ritrovo familiare e dove le parole non erano pensieri già sentiti mille volte, ma percorsi di vita quotidiana, consapevoli che il calcio è un gioco.
Osvaldo Bagnoli, vicino agli ottant'anni, ci ha concesso in esclusiva questa intervista e abbiamo ripercorso vari tratti della sua carriera, in primis da allenatore e via via siamo arrivati nella città dove le bici la fanno da padrone: Ferrara, innamorata della squadra che tutti conoscono come Spal, che non è altro che l'acronimo di Società Polisportiva Ars et Labor.
Mister, partiamo dal suo ruolo di allenatore: dopo l'Inter nel 1994 ha deciso di ritirarsi. Eppure a 59 anni si è ancora allenatori che possono dare molto. Cosa le ha fatto scattare la molla?
"Non penso sia stata una molla. L'esonero dall'Inter mi ha aperto gli occhi su un mondo che avevo valutato in modo poco approfondito: restare a casa. Una vita intera lontano dalla famiglia e un giorno ti ritrovi ancora con loro, però li guardi con occhi diversi e tutto cambia intorno a te. Ti accorgi che il rimanere a casa e godersi i propri affetti non è così traumatico come sembra. Mettiamoci anche la delusione di un esonero che non mi aspettavo e sono orgoglioso che dopo il mio allontanamento - eravamo quarti in classifica, non proprio una squadra allo sbando per intenderci - delle restanti dodici ne abbiano vinta solo una, salvandosi per il rotto della cuffia. Il problema non era Osvaldo Bagnoli".
Deluso?
"Ma sì, perché sono venuto a sapere per vie traverse molte cose che mi hanno fatto rimanere male e, cosa vuole, sarà il fatto che sono nato in un'altra epoca, ma c'è un senso di amarezza che, alla fine ti porta a decidere che quel tipo di calcio non fa più per me".
Chi glielo ha fatto fare di andare all'Inter? Non era meglio al Genoa dove ha costruito qualcosa che non si è più ripetuto?
"Al Genoa avevo parlato chiaro fin dal dicembre precedente. Parlai con il presidente Spinelli e gli dissi che a mio modo di vedere - per come io vivo il calcio - c'erano due tre elementi che andavano mandati via. Con Spinelli ci siamo anche scontrati ma il rapporto era schietto e mi disse in maniera pulita: mister, questi che lei mi dice di mandar via son ben voluti dalla tifoseria. Non ci ho pensato due volte e gli ho detto che sarei andato via io. Lui rispettava il suo programma, che non era più il mio. E ricordo che in molti hanno scritto e detto che sono andato via dal Genoa perché c'era l'Inter dietro. Non è assolutamente vero: il mio ciclo nei liguri era finito e se mi fosse arrivata un'offerta da un'altra società avrei accettato di buon grado".
Un'ultima considerazione su come è finita con l'Inter: un po' di rancore, forse?
"Non so neanche cosa sia il rancore. Sono una persona con dei princìpi e tanto basta".
Una rasoiata nel sette commenterebbe un telecronista di questi tempi.
Andando a guardare la sua carriera da allenatore, si offende se le diciamo che era un tecnico da provinciali che non appena ha avuto l'esame di una grande squadra l'ha fallito?
"Non mi offendo per niente, è un dato di fatto. Però torno a ripeterle che eravamo quarti quando mi hanno esonerato dall'Inter. Tornando alla sua domanda posso dirle che evidentemente ero portato per una realtà più a misura d'uomo rispetto ad una città dispersiva come Milano. Erano anni che all'Inter non andavano bene, magari inconsciamente hanno pensato che bastasse un allenatore esperto per cambiare le cose e vincere. Il calcio non è un'operazione matematica: uno più uno fa due, questo sì, però nel calcio non sempre la razionalità porta i suoi frutti".
Attualmente c'è qualche squadra che le piace?
"La Roma diverte e quando la vedo non mi annoio. Hanno un'idea. Adesso come adesso avere un'idea di calcio è rivoluzionario di suo. Però vede, io devo giudicare da fuori e spesso rimane un pensiero che non è completo perché sono passati tanti anni e il calcio adesso è diverso. Sono tifosissimo del Verona e lo guardo sempre volentieri, essendomi sposato e vivendo in questa città da tantissimi anni".
A Verona ha vinto uno scudetto clamoroso, con una rosa ristretta al minimo indispensabile. Impensabile oggi.
"Ha ragione, ma come le ho detto prima: erano tempi diversi. Un miracolo fu quello, ma costruito con giudizio".
Nove anni a Verona, roba che Zamparini impallidirebbe.
"Un presidente ha il dovere e il diritto di licenziare un allenatore se non porta risultati, però ci vuole tatto. Anche io la penso come lei: non capisco come faccio uno ad andare a lavorare con Zamparini sapendo che personaggio è. Allora in una società potevi creare tutto un percorso, potendo anche sbagliare, mentre oggi dopo due partite negative sei già fuori. C'è poco rispetto per il ruolo dell'allenatore".
Abbiamo fatto una bella infarinatura sul suo ruolo da allenatore, però lei prima di sedersi su una panchina ha giocato a calcio. Ci andiamo per gradi però, senza fretta. Prima di Ferrara e la Spal ci sono stati tre anni a Catanzaro. A quei tempi era raro trovare un giocatore del Nord che si spostava al Sud.
"Glielo confermo. Avevo un allenatore, Bruno Arcari che mi ha aiutato fin da ragazzo a entrare nel mondo del calcio. Prima di andare a Catanzaro ero a Udine: dopo una buona stagione con i friulani mi infortunai e la stagione successiva accettai l'offerta dei calabresi. Ho fatto tre anni a Catanzaro e come diceva lei era raro vedere uno che dal Nord andava a giocare nel profondo Sud. Però quando si decideva di fare questo passo era per guadagnare qualcosina in più. E come dice lei, dopo i calabresi mi chiamò la Spal e in particolar modo il patron Paolo Mazza (a cui è intitolato lo stadio di Ferrara). Mi fece una proposta e accettai".
Messa così suona banale. Ci dica la verità: lei non era un tipo da trattative con i presidenti.
Sorride dopo questa nostra affermazione: "Sì, ma era una questione caratteriale non altro. Mazza - le posso garantire che si informò prima di intavolare la trattativa su quello che prendevo - mi chiamò e mi disse poche parole: so che prendi questo. Io ti offro quest'altro. Il presidente ti poneva davanti ad un vicolo cieco: accettare o meno, non c'erano alternative. Ed io dissi sì. Mi avvicinavo a casa e per me era importante".
Fino a che, tre mesi dopo il suo arrivo a Ferrara il presidente la chiama e...continui lei.
"Un pomeriggio mi chiama nel suo ufficio e mi dice: sai Osvaldo, vedendoti giocare penso che in fondo non guadagni il giusto. Così mi ha aumentato l'ingaggio".
Lasciando stare l'aspetto manageriale di Paolo Mazza, ci descriva l'uomo.
"L'uomo e il manager erano un tutt'uno. Ci sapeva fare e amava follemente la Spal. Ha reso grande questa squadra facendole disputare la Serie A con pochi soldi. Ora tutti dicono che Berlusconi faccia le formazioni al Milan, mentre era risaputo che Mazza la domenica facesse la formazione con l'allenatore vicino. In settimana si informava su chi stava bene o meno e poi decideva chi doveva scendere in campo".
Lei è ricordato per un gol in Brescia-Spal 2-2 che regalò la salvezza. Eravate sotto 2-0 e riusciste nell'impresa di recuperare due reti. Cose che oggi accadono regolarmente, mentre allora era qualcosa di improbo. Quale fu il segreto di quel pareggio così prezioso?
"L'unità del gruppo fece sicuramente la differenza. Sotto di due gol ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di andare contro tutto e tutti. Il mio gol fu merito dei miei compagni. Senza di loro non avrei fatto molto".
A Ferrara lei ha lasciato un ottimo ricordo.
"Qui è nata mia figlia e porterò sempre Ferrara nel cuore per tanti motivi, tutti belli. Verona è un amore incondizionato perché come le ho detto, abbiamo vinto uno scudetto clamoroso, però Ferrara ha il suo perché".
Tra gli allenatori che ha avuto, rimanendo nell'ambito della Spal, non possiamo non menzionare il Gibbì. Stiamo parlando di Fabbri.
"Grandissimo allenatore e uomo di una tempra unica. Oltre a capirci di calcio sapeva metterti a tuo agio nel rapporto con lui. Fabbri partiva da un assunto basilare: il calcio è divertimento. Sono tanti i sacrifici, ma sono fatti per divertirsi".
Questo suo pensiero ci fa sorgere spontanea una domanda: lei ha sempre portato avanti il dialogo con i giocatori. Molti suoi ex ragazzi hanno esaltato questo aspetto.
"E ne sono ancora oggi convinto di questo. Proprio l'altra sera in tv c'erano i miei ragazzi (li chiama proprio così, ndr) Roberto Tricella e Domenico Volpati che parlavano del Verona dello scudetto e hanno detto una cosa molto bella: il mister parlava poco, ma non ne aveva bisogno, avendo il dono della sintesi. Bastava una sua parola e uno sguardo per capire al volo cosa voleva da noi. Ritengo che sia un complimento molto bello. Un giocatore, se coinvolto, riesce a dare tutto quello che ha. Con questo non voglio dire che non ho mai perso le staffe, anche io ogni tanto alzavo la voce".
Su questo punto c'è un aneddoto simpatico da raccontare: a Verona ad esempio le proposero come terzino sinistro Luciano Marangon. Lei non fu entusiasta della cosa.
"Nulla contro il professionista, ma avevo raccolto un po' di informazioni su di lui e aveva una vita tutt'altro che professionale. Sono stato sempre uno abituato a dare il giusto risalto al lavoro del campo. Con me Luciano si dimostrò un professionista modello. Certo, avrà fatto lo sciupafemmine, ma in allenamento e in partita era impeccabile. Questo mi bastava".
Un altro episodio simpatico con Hans Peter Briegel.
"Il sabato sera prima di Verona-Napoli entrai in camera di Briegel e gli dissi: Hans, tu hai giocato qualche volta contro Maradona? E lui mi fa: certo mister. Bene, gli dissi io. Domani ti tocca marcarlo. Questo tipo di rapporto con i giocatori li responsabilizza molto e Briegel, che già normalmente era forte, fece un figurone con Maradona".
In tutta questa intervista abbiamo scoperto una parte di Osvaldo Bagnoli, ma c'è un'ultima domanda che ci preme di farle: lei dà tutto il merito agli altri, non crede che se ancora oggi in tanti le vogliono bene sia anche un po perché è bravo di suo?
"Sono cresciuto in una famiglia povera, dove mi è stata insegnata fin da subito la parola lealtà e il rispetto per gli altri. Nel calcio ce n'è bisogno e quando unisci le tue forze a quelle degli altri niente può fermarti. Da soli non si costruisce niente. Per vincere ci vogliono un gruppo solido, una società e alla fine c'è l'allenatore. Sono fatto così e nessuno mi farà cambiare idea. Guardi, le dirò di più: quando ho lasciato il calcio avrei potuto fare come tanti e concedere interviste solo a pochi giornalisti. Invece ho mantenuto il profilo che è sempre stato di me stesso e le interviste non le nego a nessuno. Bisogna imparare in primis il rispetto per se stessi per poter essere rispettati".
L'elogio della normalità: nome Osvaldo, cognome Bagnoli. David Bowie ha aperto questa intervista e vogliamo chiuderla così: "We can be Heroes just one day".
La prossima intervista per "Mi ritorni in mente" è per domenica 30 marzo 2014.
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