ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente : Michele Paramatti

Il sale in una partita di calcio sono le occasioni da gol. Senza quelle lo spettacolo dei novanta minuti non avrebbe senso. Senza le occasioni, anche le sintesi scadenzate in tre minuti - restringere il tempo per non annoiare, uno dei tanti segni di un'epoca dove tutto deve andare di fretta, comprese le immagini - perdono quel brio per cui sono costruite.
Su un cross basso l'istinto può creare l'occasione giusta e la lotta tra difendente e attaccante rende quel momento unico, in particolar modo se vissuto al rallentatore: i corpi che si deformano come se avessero perso quell'elasticità che a velocità normale neanche riesci a notare.
Anche nella vita, come in una partita di calcio le occasioni sono opportunità che vanno colte. Quello che non avviene in 26 anni, si tramuta in realtà in qualche istante.
Sembra la storia di un libro, ma è tutto vero: Michele Paramatti si ritrova da protagonista di anni importanti con la maglia della Spal - con una promozione in B di cui sente ancora l'odore dei festeggiamenti - ad essere un disoccupato: la dirigenza spallina nel 1994/95 decide che non c'è più spazio per lui. Si aprono le porte dell'Equipe Romagna,
Potrebbe caderti il mondo addosso in quei momenti: Paramatti in quei giorni pensa a tante cose, come ad esempio l'idea di appendere gli scarpini al chiodo. Ritornano protagoniste le occasioni.
Stavolta è il Bologna a chiedere le sue attenzioni, con Renzo Ulivieri che intende incontrarlo. Il Renzaccio è molto chiaro con lui, come lo stesso Gabriele Oriali - dirigente dei felsinei - nel prospettargli un ruolo di ripiego, senza comunque negargli l'occasione di potersi ritagliare uno spazio.
E' comunque un'occasione che Michele Paramatti non si lascia sfuggire. Riordina i pensieri, rimettendo nella valigia i propositi di ritiro per dare a quell'occasione i colori che lo porteranno ad essere un idolo della tifoseria rossoblù.
In cinque anni a Bologna - dal 1995 al 2000 - si apre le porte ad un'altra occasione - vero leit motiv della sua carriera -, quella di una vita: la Juventus. In lacrime lascerà il Bologna per l'avventura in bianconero che, come certi treni, non passa due volte.
Oggi Michele Paramatti è un imprenditore nel ramo immobiliare: gli scarpini da calciatore li ha sostituiti con le scarpe da golfista, vera passione divenuta qualcosa in più, conosciuta nell'esperienza in bianconero.
Il protagonista di questo 99° appuntamento con "Mi ritorni in mente" sarà proprio colui che fece nascere il coro: "Mi innamoro solo se, vedo giocar Paramatti: gioca bene gioca male, lo vogliamo in Nazionale".
In questa intervista esclusiva concessa a TuttoLegaPro.com, l'ex difensore spallino ha rivissuto gli anni di una carriera che è iniziata dal basso, finendo per essere qualcosa che neanche aveva ipotizzato nei suoi sogni più belli.
Michele benvenuto all'appuntamento numero 99 di "Mi ritorni in mente".
"Per me è un piacere essere vostro ospite".
Si metta a suo agio: partiamo dalla sua infanzia. Nasce a Salara, piccola località che si trova in provincia di Rovigo, ma è un confine per tre province: Ferrara, Mantova e la stessa Rovigo.
"Si, l'infanzia di un bambino come tanti".
Un suo amico le disse: "Michele, Panta rei: cogli l'attimo". Questo aforisma è divenuto il suo mantra.
"E' molto importante cogliere l'attimo, soprattutto quando ti capitano certe occasioni. Fui pronto a sfruttare la proposta della Spal che mi vide - tramite un proprio osservatore - in un torneo locale e mi presero per iniziare la mia trafila nel settore giovanile. Sono arrivato a Ferrara nel 1983, tre anni dopo esordivo in serie C".
Una serie C sicuramente diversa rispetto ad oggi.
"Completamente diversa. Potrei dire che era più difficile, con giocatori e squadre più attrezzate. Era una terza serie che aveva della qualità".
Quella qualità che attualmente in Lega Pro stenta a decollare. I tanti giovani per favorire il loro inserimento nel calcio dei grandi portano volenti o nolenti ad un abbassamento del livello del torneo.
"I giovani sono un capitale importante per il club di origine, però sicuramente vanno inseriti in un contesto più selettivo".
La quantità non fa la qualità.
"Esatto. A volte si rischia di guardare più alla quantità e questo non è neanche formativo per quelli che hanno qualche qualità in più, che si possono perdere".
La quantità porta spesso dei personaggi poco qualificati a lavorare in maniera poco pulita per un ritorno economico.
"E' un segno dei tempi: si cerca la scorciatoia, al posto del sudore e del lavoro per ottenere dei risultati. A maggior ragione nel calcio dove le possibilità di guadagno sono tante. Credo che anche in questo ambito vada fatta attenzione per evitare di ritrovarsi in situazioni poco piacevoli".
Tornando all'aforisma "Panta rei", lei ha colto tutti gli attimi che le si sono posti davanti agli occhi. Dopo l'esperienza con la Spal si ritrova disoccupato, allenandosi nell'Equipe Romagna (rappresentativa di calciatori in attesa di occupazione, ndr), quando all'improvviso la chiama il Bologna.
"C'era il grande Magrini come allenatore di quella rappresentativa e ricordo che mi contattò Renzo Ulivieri, allora allenatore del Bologna. Il suo discorso è stato molto chiaro, però era una chance che non potevo sprecare. Ha voluto conoscermi come persona. Ricordo che mi presentai all'appuntamento con mezz'ora d'anticipo perché non intendevo mancare. E' stata una possibilità che ho saputo cogliere e sfruttare al meglio. La mia storia è ricca di occasioni colte, soprattutto per via della mia perseveranza: non mi davo mai per vinto, pensavo sempre di potermi migliorare e lavoravo per questo. Avevo questa speranza che prima o poi l'occasione capita e devo farmi trovare pronto".
Molto spesso l'occasione non arriva e c'è la tentazione di abbandonare tutto. Stava capitando anche a lei, quando da disoccupato nella sua mente ha iniziato a farsi spazio quel diploma che ha preso da ragazzo che le poteva tornare utile.
"Era un'alternativa, perché oltre ad essere sognatore, sono anche consapevole di vivere in una realtà che non è fatta di sogni. La realtà dice che devi prepararti a qualsiasi evenienza: il calcio come obiettivo, come sogno, ma realisticamente mi sono impegnato per ottenere il diploma di ragioniere programmatore in alternativa all'attività sportiva. Mi sono iscritto in seguito all'Università di scienze motorie, non conclusa per dare spazio alla professione di calciatore. C'è ancora un po' di rammarico in questo, però ho sempre lavorato con l'opzione di avere una strada di riserva pronta in caso di necessità".
L'esperienza alla Spal, dopo sei anni si conclude in maniera poco onorevole: la dirigenza le dice chiaramente che non c'era più spazio per lei. Si ritrova disoccupato.
"Nella carriera calcistica bisogna anche avere la fortuna di incontrare le persone giuste, quanto meno corrette. Arrivai alla Spal ancora molto giovane e ancora era in funzione il vecchio centro sportivo. Dopo nove anni mi è stato detto che non servo più. In quel periodo la Legge Bosman non era ancora entrata in vigore e nonostante avessi avuto delle richieste non le presero in considerazione perché volevano monetizzare la mia cessione. Mi fu preclusa qualche possibilità anche in quell'occasione. Mi ritrovai a Milano Marittima con i disoccupati e questo permise al Bologna di Gazzoni presidente, Oriali Ds e Ulivieri allenatore, per quella che è divenuta la svolta della mia carriera".
Una svolta che l'ha portata ad essere un idolo dei tifosi felsinei, fino al coro: "Gioca bene gioca male, lo vogliamo in Nazionale". Altro aspetto molto bello che contrasta con l'attualità di calciatori con le cuffiette, gli occhiali da sole con i volti fuori dal mondo, lei ha pianto quando arrivò la chiamata della Juventus. Vederla emozionarsi ha riconciliato con la normalità.
"Credo che la vita e il calcio stesso regalino tante emozioni, penso non abbia senso nasconderle. Una persona deve vivere le emozioni perché ogni giorno si pongono e si propongono. Il calcio è un'emozione continua: ci si allena per il gol, per la vittoria, per regalare un'emozione a chi viene a vederci. Anche noi stessi calciatori siamo artefici di un'emozione che produciamo in noi stessi quando riusciamo a raggiungere un risultato. Se ripenso a quei gesti di cui mi parla, penso che non ho fatto nulla di particolare: ero me stesso, al naturale. Più umano? Si, più umano. Non ho dovuto mascherare niente di quello che sono, perché probabilmente la mia indole è questa. Quella di dare tutto quello che ho, di essere a disposizione del gruppo: di gioire e perché no, di piangere anche per situazioni spiacevoli. Ma non mi vergogno, perché sono così: sono vero".
Forse quello che manca a tanti ragazzi che arrivano nelle prime squadre: quella mancanza di umanità più che di umiltà, che gli fa perdere l'equilibrio che serve in uno sport di squadra. Lei è un esempio di chi, lavorando in maniera caparbia è arrivato lassù senza spintarelle.
"Credo che debba essere normale che uno arrivi senza l'aiuto di nessuno. Dovrebbe esserci una meritocrazia che va al di là delle capacità tecniche. Un giocatore si valuta anche in altre caratteristiche, come ad esempio l'aspetto caratteriale e disciplinare. Quello che ho ottenuto è arrivato grazie alla mia perseveranza, alla mia professionalità e soprattutto del fatto che in tutte le squadre in cui sono stato, ho sposato la causa di quel club. Il senso di appartenenza è importante per raggiungere il risultato per il gruppo e per migliorare le proprie prestazioni. Quando riesci in questo, si crea un'empatia con la squadra, con la città stessa, necessaria per farti sentire partecipe, parte dei colori della maglia che indossi".
Questo porta a spettacolarizzare uno sport come il calcio e questo fa si che tanti ragazzi perdano di vista il loro obiettivo.
"Molto spesso vengono esaltati i gesti sul campo, ed in parte è anche giusto. Per arrivare a quello c'è un lavoro dietro le quinte che non tutti conoscono. Ci vuole una certe abnegazione a livello mentale per restare a certi livelli e questo porta molti ragazzi capaci a perdersi perché non hanno la struttura caratteriale adatta a sopportare certe pressioni. Così vedi tanti ragazzi - riallacciandomi al discorso di prima dell'aspetto tecnico - che sanno fare il colpo sotto, la bella giocata. Ma non basta! Nel calcio servono doti importanti che non trovi solo nei piedi educati. Ci vuole sostanza e non solo apparenza".
Al momento di sostanza ce n'è poca.
"E' un periodo storico per il nostro calcio che va così. La ricerca della scorciatoia non porta lontano: non dico che ti imborghesisce, ma non ti fa approcciare alla realtà in cui ti trovi perché non ne hai i mezzi. Viceversa, quando le cose le ottieni con il sudore della fronte, passo dopo passo, riesci ad apprezzarle di più. Per me una cosa importantissima è stata l'esperienza delle giovanili della Spal. Come allenatore in prima squadra c'era Giovanni Galeone. C'è una frase che mi è rimasta impressa: è meglio un cavallo non di razza che corre che suda o un cavallo di razza che si specchia nella sua bellezza inutile? Questa frase è stata uno stimolo molto forte per me: anche se non sono dotato tecnicamente, posso essere apprezzato per tutto quello che do".
Lei ha giocato anche nella Juventus e lo stile del club bianconero è famoso. Può descrivercelo?
"Vede, la Juventus basa le sue scelte non soffermandosi sull'aspetto tecnico, ma guardando ad altre caratteristiche. Lo fanno perché sono il club più titolato d'Italia ed hanno un'immagine da far rispettare. Per loro un giocatore che non segue un determinato profilo comportamentale è un danno alla loro storia, fatta di comportamenti che devono seguire un certo stile".
Lei il calcio ormai lo vive solo come spettatore.
"Ho un'attività immobiliare che mi permette di vivere come voglio, dandomi lo spazio che mi serve per godermi la famiglia e le mie passioni".
Tra queste il golf. Come nasce la passione per questo sport?
"Ricordo che ero alla Juventus e con Edwin Van Der Sar - portiere della Juventus a cavallo tra il 1999 e il 2001 - grande appassionato di golf, ho iniziato a praticarlo in un campo privato proprio al centro di Torino, proprio vicino allo stadio dove ci allenavamo. La mattina ne approfittavamo per fare un po' di pratica. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo ho continuato a giocare a golf e mi piace molto. Il golf ha un collegamento speciale con il calcio: l'erba. Quello che mi piaceva molto quando giocavo a calcio era quello di camminare a piedi nudi a fine allenamento".
Lei ha un figlio che gioca nella Robur Siena, Lorenzo. Ogni tanto gli dà qualche consiglio oppure preferisce che sbagli da solo?
"Giusto che sbagli: dagli errori si impara. Facendo tesoro per non commetterlo ancora. Da quando ho smesso di giocare a calcio, senza restare nel sistema stesso, ho cercato di stare il più vicino possibile ai miei figli, infondendo loro i valori che mi hanno animato sia nella carriera calcistica che quelli che mi hanno insegnato i miei genitori. L'ho anche confortato, consigliato, tutte cose che ho fatto anche io e di cui ho avuto bisogno".
Ultimo appuntamento con "Mi ritorni in mente": domenica 3 gennaio 2016
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