ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Franco Colomba

ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Franco ColombaTMW/TuttoC.com
Franco Colomba
© foto di Federico De Luca
domenica 28 aprile 2013, 22:30Interviste TC
di Daniele MOSCONI

Non appena si prende l'autostrada che da Napoli porta ad Avellino, ci si accorge subito di essere in Irpinia. Tutto il paesaggio circostante cambia d'improvviso. Il territorio comincia a prendere un colore univoco: il verde. Gli alberi intorno divengono un quadro mai banale, nonché il leit motiv di ogni chilometro che viene percorso. Ogni tanto qualche casa qua e là a rompere il monologo della natura ed anche l'aria si adegua. Più sincera e schietta. Se a Napoli la temperatura tende a divenire più frizzante e briosa, prendendo le sembianze della città capoluogo di regione, oltrepassato Baiano irpino si sente quel vento deciso che ti prende dentro e ci si accorge che quella maglietta messa sulle spalle, quasi quasi bisogna indossarla.

Arrivati alle porte di Avellino c'è Mercogliano: un gioiello incastonato in una provincia che regala sempre qualche motivo per rimanere stupiti. Arrivati nella città principe dell'Irpinia, si entra in un ambiente ovattato, più a misura d'uomo, dove tutto ha un sapore diverso. Se a Napoli la confusione e il caos per certi aspetti ne sono l'emblema, ad Avellino la cosa stonerebbe subito. Difatti le persone del posto non amano essere paragonate ai napoletani. Questioni di campanilismo e voglia di marcare la propria diversità. La città nonostante abbia poco più di cinquantamila abitanti, ha il tono di una signora ben vestita e il corso principale, quando è sera, ha l'aspetto di una bomboniera, con le luci che dall'alto sembrano Swarovski.

Per arrivare al "Partenio-Lombardi" si sceglie Piazza Kennedy, da dove si inizia la passeggiata (in poco più di venti minuti si arriva) che porta all'impianto sportivo, in questo modo si attraversa un meraviglioso viale alberato, dove i pioppi che accompagnano il tifoso allo stadio, durante il periodo autunnale, lasciano cadere le loro foglie per permettere il ricambio e consentono a chi vi abita o va a vedere la partita di avere davanti agli occhi uno spettacolo della natura: il grigio dell'asfalto si confonde con il giallo, dando agli occhi un momento di rara bellezza. Lo stesso colore delle foglie, che staccandosi dal ramo, cadono copiose sul manto stradale e mentre ci passi sopra a piedi, senti il suono delle stesse che crepitano al tuo passaggio.

Chissà quante volte Franco Colomba, da giocatore ci è passato quando indossava la maglia dell'Avellino e chissà quanti pensieri lo hanno sfiorato dinanzi a quel quadro naturale che sembra fermo, ma lascia sempre sorpresi nella sua bellezza.

Prima di approdare all'Avellino, Franco Colomba aveva militato nel Bologna, dove ha esordito giovanissimo (1973/74), per poi farsi le ossa come si dice in gergo, a Modena e a San Benedetto con la Sambenedettese. Giocatore dotato di discreta visione di gioco, ad Avellino (dal 1983 al 1988) ha vissuto momenti bellissimi ed emozionanti, che ci ha raccontato in questa intervista. I tifosi, la gente comune lo hanno vissuto come un figlio di questa terra e Franco Colomba in alcuni frangenti dell'intervista lascia trasparire questo aspetto, con la voce che non sfugge al brivido che dà ricordare certi momenti vissuti.

Cinque anni della sua carriera calcistica con quel biancoverde che in Irpinia è più di una squadra. E' un qualcosa che tiene unita una popolazione che vede nei lupi il riscatto e un segno identitario. Il territorio dell'Irpinia ha un suo fascino particolare e nasconde paesaggi e piccole località che lasciano senza fiato. A questi va aggiunta l'ospitalità della gente che ti fa sentire uno di loro. Se per spostarsi si utilizza la macchina, si viene accolti dal polmone verde della natura, con alberi secolari, vero elemento caratteristico dell'Irpinia, che sembrano accompagnarti nel tuo viaggio e non di rado qualche animale sbuca dal bordo della carreggiata, quasi a volerti dare il suo benvenuto. Senza dimenticare i piatti tipici, una vera squisitezza che almeno una volta nella vita bisogna provare. I vini, con il Fiano e il Greco che regalano profumi all'olfatto degni della scia di una donna. Nettare degli dei che nasce corposo e ottimo per la cibagione da caccia.

Colomba in questa intervista ci dà l'impressione di non cambiare: che sia in tv o al telefono, quella sua flemma elegante e pacata nell'esporre i suoi pensieri è il suo marchio doc. Non lascia nulla al caso e le parole sono sempre penetranti, come una goccia d'acqua che alla lunga si crea un percorso nella roccia.

La signorilità è il ritratto migliore che possiamo fare dell'uomo, che in questa intervista esclusiva concessa a TuttoLegaPro.com esce fuori con delicatezza, come la sua voce, ma senza mai apparire noiosa.

Non potevamo trovare ospite migliore per questo 30° appuntamento con "Mi ritorni in mente", lo spazio che il portale dedica a quei protagonisti del passato che con le loro gesta hanno lasciato un ricordo indelebile nel cuore dei tifosi di quei club che attualmente militano in Lega Pro.

Mister, lei esordisce in Serie A con la maglia del Bologna nel 1973/74.

"E fu un esordio che ancora oggi è difficile dimenticare: contro la Juventus nel marzo del '74. Quel giorno con me ha esordito anche Eraldo Pecci (bandiera dei felsinei, ndr). Facemmo 1-1 e quel giorno non lo dimentico facilmente perché in quei momenti si veniva a coronare il sogno di ragazzino, quando dietro ad un pallone io cercavo di dare un risultato concreto a ciò che desideravo".

Si ricorda il suo primo gol?

"A Foggia già la domenica successiva. Fu un evento particolare perché andammo a segno io e Beppe Pavone. In un certo senso il 'festival dei volatili' in quella partita ...".

Come fece gol?

"Ci fu un assist di Bulgarelli, io la calciai con il sinistro e mi andò bene. Una bella sensazione".

Cosa ricorda di quei primi anni?

"Giocai poco in quel Bologna, ma nonostante ciò, mi resi conto che potevo starci a quel livello. La serie A tanto ambita non era un'utopia, ma un qualcosa che faceva per me. Andai a giocare a Modena e con la Sambenedettese e quando tornai in rossoblù (nel 1977) era tutto diverso e anche il mio modo di giocare era più smaliziato. Divenni anche capitano nella stagione 1980/81 e fu motivo di grande soddisfazione essendo io molto giovane".

Lei ha giocato prevalentemente con due squadre: il Bologna e l'Avellino.

"Giocare a Bologna, per me che ci vivevo non era semplice. C'era la pressione delle persone che ti conoscono e fare bene non era affatto facile, ma riuscii comunque a dimostrare il mio valore. Viceversa ad Avellino fu un'esperienza importante. Quasi un esame di maturità per me che non ero mai andato tanto lontano a giocare. E fin dall'inizio la gente mi dimostrò grande affetto e stima. Lei capisce che, in un contesto del genere, un giocatore se dà cento, si sente in condizione anche di dare di più, spinto com'è dall'entusiasmo che ti galvanizza. Io arrivai anche in un periodo storico importante: poiché nel 1980 ci fu il terremoto e l'Irpinia era stata colpita nell'anima. Noi come società andavamo nei paesini a portare il conforto a quella povera gente che vedeva in noi il riscatto e la domenica scendevano tutti per venirci a vedere al "Partenio". C'era sempre un clima particolare e le cornici di pubblico erano commoventi".

Cosa ha rappresentato per Avellino disputare dieci campionati consecutivi in serie A?

"Era l'orgoglio di poter alzare quella bandiera accanto a quella del Napoli. C'era anche parecchio campanilismo, ma dopo i fatti del terremoto era ormai un identificarsi dietro il bianco e il verde. La Campania non era più rappresentata solo dal Napoli, ma c'era anche l'Avellino e la salvezza dei lupi ogni volta era un motivo di vanto".

Quanto conta il sentimento in una scelta professionale? Il calcio vive anche di questo e per un professionista non è mai semplice decidere.

"Personalmente quando faccio una scelta ci dev'essere sempre del trasporto. Mi devo sentire coinvolto al cento per cento per far parte di un progetto. Ad Avellino sentii fin da subito il trasporto che la gente mi faceva sentire. Era un rapporto alla pari: io ricevevo per quanto davo e sapevo che più davo e più ricevevo. E come ho detto prima, questa cosa mi dava uno stimolo interiore molto forte".

Si informa ancora sull'Avellino?

"Certamente. L'Avellino ha rappresentato tanto per me e sarei contento se dovesse tornare in B".

Secondo lei ce la possono fare a salire in cadetteria?

"Me lo auguro, soprattutto per Massimo (Rastelli, allenatore degli irpini, ndr), perché già da giocatore si notava la sua intelligenza e oggi sta facendo davvero un gran bel lavoro".

Nel calcio che ha vissuto lei da protagonista, l'Avellino era etichettato come un club provinciale. Un termine che ora ha il significato di "piccola". Esiste ancora oggi questa accezione della "provinciale" secondo lei?

"Penso di sì. Basta prendere ad esempio i club che militavano in quella serie A: l'Ascoli, il Pisa o lo stesso Avellino. Erano realtà che avevano un bacino di utenza minore rispetto alle grandi forze del campionato e quindi dovevano cercare sempre di fare un mercato al risparmio, sperando di riuscire a scovare qualche giocatore sconosciuto e da quello costruire, con la cessione la stagione successiva, il mercato. Così dovevi avere dirigenti scaltri e attenti e con quello che riuscivi a costruire dovevi essere fortunato a salvarti. E lì che poi si vede la bravura di chi ci capisce di calcio. Lo stesso discorso, arrivando ai tempi nostri, si può fare sul Chievo che rimane una provinciale. Comunque io non lo vedo come un termine quasi di disprezzo, poiché spesso per fare il passo più lungo della gamba rischi di fallire e di gettare al vento un lavoro di anni e anni. Bisogna sempre rimanere umili, perché il baratro, in caso di esposizione oltre le proprie forze, è sempre dietro l'angolo".

Lei adesso di mestiere fa l'allenatore e vorremmo chiederle se qualche volta non le viene il desiderio, mentre allena, di tornare a giocare.

"Adesso no, perché gli anni sono passati e non c'è più quella tensione della gara. Magari i primi anni c'era quel fuoco che divampava dentro, ma alla fine ci si abitua al ruolo e pensi da allenatore e non più da calciatore".

Gioca ancora, anche per divertimento, oppure ha chiuso proprio del tutto?

"No, gioco con gli amici e devo dire che sono ancora uno veloce. Ma non creda chissà cosa: si gioca a due all'ora e così sembri più rapido (ride)".

Tornando all'album dei ricordi biancoverdi, lei ha conosciuto il commendator Sibilia?

"No. Questo è un mio grande rammarico, visto che quando arrivai ad Avellino lui era coinvolto in alcune vicende personali, se non ricordo male era ai domiciliari. Le posso dire che, per come mi è stato descritto, era il classico uomo tutto d'un pezzo e dovevi fare quello che diceva. Lavorava molto di giustezza, facendo firmare dei contratti addirittura dal barbiere. Era un calcio diverso e se non ci sapevi fare, ti sbranavano. Io ho avuto altri presidenti: dall'avvocato Preziosi a Pecoriello e sul finire della mia esperienza ad Avellino ci fu Graziano".

Rimaniamo su questo tema e vogliamo chiederle il ricordo più bello della sua esperienza in Irpinia.

"Sono molti. Ad esempio io ricordo come fosse oggi l'esordio in maglia biancoverde. Partire con un 4-0 contro il Milan - e feci anche gol! - era davvero il massimo. Quel giorno successe di tutto e fu una domenica che rimarrà negli annali. Feci anche un gol alla Juventus, sempre in quel campionato, ma non servì a molto perchè finì 2-1 per loro".

Ed i gol più importanti?

"Uno alla Lazio in trasferta e quel giorno c'era tutta Avellino a seguirci perché ci giocavamo la salvezza. Dal dischetto feci gol e vincemmo 1-0 e ricordo che quando stavamo tornando, sull'autostrada, i tifosi ci assalirono per festeggiare la permanenza in A. Questo è uno dei tanti motivi che ho per amare ancora questa gente. Un'altra rete che ricordo fu contro la Juventus e facemmo 1-1 e sempre dal dischetto ci salvammo anche quella volta".

In quegli anni era raro vedere centrocampisti segnare tanto. Almeno non al livello di oggi...

"Anche a quel tempo c'erano dei centrocampisti che segnavano, magari non erano come oggi. Ad esempio io ero il rigorista e le occasioni per andare in rete le avevo e alla fine ho fatto più gol all'Avellino che con il Bologna. Da dire che io provavo più piacere a farli fare che a segnarli. Quando potevo mandare in porta Ramon Diaz (attaccante argentino che ha giocato anche nel Napoli e con l'Inter vinse lo scudetto dei record nel 1988/89) oppure Walter Schachner (punta austriaca che ha giocato anche nel Torino e nel Cesena) o i"l cobra" Sandro Tovalieri. Era una soddisfazione immensa, perché mettevi al servizio della squadra le tue qualità".

L'allenatore con cui si è trovato meglio quando giocò con la maglia dell'Avellino?

"Dal punto di vista tecnico e umano: Luis Vinicio. Una persona di una coerenza unica. Ricordo che quell'anno (1986/87) riuscimmo a fare 30 punti (c'erano i due punti per la vittoria) e fu la stagione migliore da quando l'Avellino militava in A e c'era gente che la stagione successiva iniziava a fare la bocca buona e chiedeva di più. Quello secondo me fu l'inizio della fine, tanto che l'anno dopo finì il sogno e ci fu la retrocessione".

Com'è cambiato il ruolo di un allenatore con il passare degli anni?

"Il nostro è un ruolo ancora fondamentale e penso che la cosa fondamentale sia riuscire a creare un gruppo e uno spogliatoio unito. La differenza è molta, perché adesso tutti parlano di calcio: dalla Tv a Internet, c'è un cortocircuito di informazione che ti tiene sempre sotto pressione, al punto che i forum dei tifosi decidono se un allenatore deve rimanere o meno su quella panchina".

Lei ha anche allenato l'Avellino (in B), ma non andò proprio come avrebbe desiderato.

"Era il campionato 1996/97, presi la squadra all'ultimo posto (arrivò al posto di Francesco Oddo) e facemmo un girone di ritorno da play off, arrivando a giocarci la salvezza ai play out contro l'Albinoleffe. C'è ancora tanta amarezza quando ci penso: giocammo entrambe le partite in trasferta, perché il "Partenio" era squalificato. All'andata (si giocò a Perugia), loro vinsero 2-0 e al ritorno, sotto un diluvio incredibile riuscimmo a vincere per 3-2, ma non bastò. Una delle delusioni più cocenti della mia carriera da allenatore".

A prescindere dall'offerta, ma il desiderio di tornare ad allenare l'Avellino c'è sempre?

"Certo, come no! Bisogna sempre sedersi ad un tavolo e mi piacerebbe togliermi la soddisfazione di prendermi la rivincita dopo quella triste retrocessione. Mi è rimasta sul gozzo quella cosa e ancora oggi ci penso. Vedremo cosa ci riserva il futuro".

Il prossimo appuntamento con "Mi ritorni in mente" è per domenica 12 maggio.