Una vita alla Juventus, ma tutto parte dal Milan e dalla C2: Gianluca Pessotto
Una vita in bianconero. Da ventidue anni, Gianluca Pessotto ha legato la sua carriera, e molto di più, alla Juventus. Trecentosessantasei presenze – e tre gol – con la maglia della Vecchia Signora. In bacheca, tutto quello che si può vincere: scudetti, Champions, intercontinentale, coppe e supercoppe. Oggi, è sempre Juve: da dirigente, Pessotto guida il settore giovanile del club, compresa l’Under 23. Tutto, però, parte da molto più lontano. Da Latisana, piccolo comune friulano della provincia di Udine, al confine con il Veneto. E da altri colori: quelli del Milan, nella cui Primavera muove i primi passi da calciatore. Non è una squadra qualsiasi, non sono anni qualunque: Pessotto, classe ‘70, passa al Milan agli albori dell’era di Arrigo Sacchi. È il Diavolo che nel giro di pochissimo tempo diventerà quello degli olandesi: prima Van Basten e Gullit, poi arriverà anche Rijkard. Da quella Primavera, uscirà un terzino destinato a sostituire il rosso col bianco, ma anche gente come Toldo, Albertini, Porrini: “È stata un’esperienza magnifica – ricorda Pessotto a TuttoC - sono passato da un piccolo paesino del Friuli a una realtà come Milano. Per rincorrere il sogno della vita, a maggior ragione venendo da una famiglia di milanisti”. Famiglia con la quale, per la cronaca, Pessotto è perfettamente in sintonia. Diventerà un’icona della Juve, ma da piccolo il cuore batte rossonero: “Sì, non l’ho mai nascosto. Immaginatevi come ho vissuto l’opportunità di giocare per la squadra del cuore”. Certo, il salto è di quelli che può spaventare: “Beh c’erano tanti rischi, tanti punti di domanda. A 15 anni sei veramente piccolo: per me era una sfida affrontare un passaggio di questo tipo, in una città così grande e in un club così importante. Ma a me le sfide sono sempre piaciute, non ho mai avuto timore di prendermi dei rischi e affrontare le cose di petto. I miei genitori mi hanno dato fiducia immensa, lasciandomi possibilità di scegliere. E devo dire che è stata un’esperienza incredibile”. Sono gli anni, si diceva, in cui il Milan cambia e cambia il calcio italiano: i rossoneri passano da Farina a Berlusconi. “In un attimo noi ragazzi ci trovammo – continua Pessotto – a trasferirci da un convitto nel centro di Milano a Milanello. Per noi era il Grand Hotel. E allenarsi con quella squadra era come andare all’università del calcio”. Come molti ragazzi della Primavera, di tanto in tanto gli capita di allenarsi con la prima squadra, con Baresi e un giovanissimo Maldini, che però è sempre stato Maldini: “Quando capitava che ti chiamassero anche solo per fare numero, avevi modo di capire quali fossero le tue ambizioni e cosa servisse per soddisfarle”. In rossonero, Pessotto getta le basi per quella professionalità estrema che sarà un tratto distintivo della sua carriera e che, confesserà in questa chiacchierata, ritroverà altrove anni dopo: “Quei campioni vincevano tantissimo – prosegue – ma si allenavano con una umiltà incredibile, come se non avessero vinto nulla. Per me è stata una grande scuola, ho visto gente come Van Basten e Rijkaard che prima dell’allenamento faceva esercizi di tecnica coi conetti. E non ne aveva ovviamente alcun bisogno. Quella fase mi è servita soprattutto per capire che un campione lo è prima di tutto nella mentalità”.
Il salto impossibile e la C2. In quella Primavera, come detto, Pessotto si trova a confronto con altri coetanei che s’imporranno nel corso degli anni. Pensare di farlo direttamente nel Milan dei fenomeni è però pressoché impossibile: “Di fatto ci è riuscito solo Albertini, che dopo un’esperienza fuori è tornato al Milan e ci è rimasto, anche aiutato dall’addio di Ancelotti. Però tecnicamente era impensabile poter fare un salto così grande e passare dalla Primavera alla prima squadra in maniera fissa”. D’altra parte, sono anni diversi: le rose non sono extralarge come nel 2022, partire in prestito è la regola ancora più di oggi. “Ma l’approccio è cambiato molto – spiega Pessotto – oggi se proponi a un giovane della Primavera di andare in C può capitare che ti guardi un po’ storto. Trent’anni fa la Serie B era un miraggio: ci andava solo l’élite. Degli altri, i più bravi e fortunati partivano dalla C1, altrimenti dalla C2”. Della Serie A, inutile a dirsi, neanche a parlarne: “Oggi è tutto più veloce. I ragazzi hanno più visibilità, i campionati vengono trasmessi in tv anche a livello giovanile, gli scout girano. Il percorso è accelerato, anche se le difficoltà restano. Penso che ognuno debba avere il suo percorso: io per esempio, non ero pronto per andare in B né tantomeno in A. E così non ho storto il naso quando andare via dal Milan è significato trasferirsi a Varese”. Proprio dalla C2, infatti, parte l’avventura tra i “grandi” di Pessotto. Stagione 1989-90, in panchina c’è Pietro Maroso: “Varese è stata la mia fortuna – assicura – e questo dimostra che ogni strada diventa buona se hai la capacità di pensare non a quello che hai lasciato, ma a quello che devi fare per raggiungere il tuo obiettivo”. La squadra è pensata per vincere il campionato e infatti lo farà: “Per me – continua Pessotto – è stata un’esperienza fondamentale. Magari ho fatto un passo indietro rispetto ad altri compagni, ma ho preso più consapevolezza nei miei mezzi. Non ero così sicuro di me e di quello che avrei potuto fare, Varese mi ha permesso di scoprirmi passo dopo passo”. Il primo anno, che tra l’altro per il protagonista della nostra storia coincide con la maturità, è da incorniciare: il Varese, come detto, vince la C2 e conquista la promozione. Nella stagione seguente, non riuscirà però a difendere la categoria e retrocederà: “Per me resta un passaggio fondamentale, sia dal punto di vista professionale che umano”. L’anno della svolta, però, è quello successivo: Pessotto passa, sempre in prestito dal Milan, alla Massese, ancora in C1. Non è una squadra che lotta per i piani alti della classifica, anzi quella stagione la ricorda così: “Ci siamo salvati per il rotto della cuffia. Come quella precedente, è stata un’esperienza che mi ha aiutato molto a capire dove volessi arrivare. Il rischio che si corre a quell’età è di adeguarsi al livello e al ritmo del campionato. Invece i giovani devono avere l’ambizione di non accontentarsi, di capire che per loro quella è una tappa di passaggio. Io ho rischiato di fermarmi più di una volta, ma soprattutto a Massa. E lì ho avuto uno switch a livello mentale”. Il punto di svolta, Pessotto lo individua in una partita col Carpi: un successo per 1-0 che chiude un ciclo di gare – sei – senza vittorie. Una giornata grigia, come tante, con pochi spettatori, Pessotto esce dal campo convinto di aver offerto una buona prova, forse anche per il risultato della sua squadra. Un ruolo cruciale lo svolge il suo agente Sergio Berti, uno dei grandi procuratori della storia del calcio italiano. Lo guarda giocare, lo aspetta a fine partita, glielo dice chiaro e tondo: “Ma tu cosa vuoi fare della tua carriera, della tua vita? Perché se tu vuoi continuare con la C, continua a giocare così e per la C sei un buon giocatore. Ma, se nella tua vita vuoi fare qualcosa di diverso, non ti puoi accontentare di queste prestazioni”. Poche frasi, che per un ragazzo di ventidue anni suonano come una sveglia: “Mi ha fatto sentire talmente piccolo che mi sono vergognato. Ho capito che mi stavo adeguando alla categoria, ai ritmi, a calciatori anche più grandi. Loro sono un grande esempio, per esempio anche oggi in Under 23 vediamo che sono fondamentali per tenere alto il livello durante gli allenamenti. Però è normale che debbano avere ambizioni diverse da quelle di un ventenne. Ci ho messo un po’ a cambiare le cose, perché non è mai semplice, ma è stato un passaggio importante della mia vita e della mia carriera. Se fossi rimasto in C per sempre non mi sarebbe andata male, ovvio: parliamo di un campionato di grande impegno, fatto da gente che ama davvero il calcio. Ma penso che un giovane debba avere l’ambizione di fare qualcosa di diverso”.
Bologna e Verona. Scampata per poco una retrocessione, Pessotto va incontro alla prossima. E oggi ci scherza su: “È vero, a un certo punto dovevo decidere se fare il calciatore di squadra che retrocedono o fare altro, perché se poi iniziano a girare queste voci non ti prende più nessuno”. L’annata è quella di Bologna, stagione 1992-1993. In Emilia non la ricordano con il sorriso: in panchina si succedono quattro allenatori, da Bersellini a Janich passando per Cerantola e Fogli. La squadra, sulla carta, ha nomi importanti: ci sono Incocciati, Gerolin, Turkyilmaz. Gente che appena due anni prima ha giocato in Serie A. Gli anni sono di transizione: a fine campionato ci sarà il fallimento pilotato, arriverà Gazzoni Frascara, salverà il Bologna ma ripartendo dalla C1. Facciamo, però, un passo indietro: Pessotto è sempre di proprietà del Milan. E, dopo tre anni in provincia, Bologna significa tornare in una grande città: “Non mi sembrava vero di andare una piazza così, era il primo anno di B per me e tra l’altro io ho anche fatto il militare in quella stagione. Però è vero, abbiamo imbroccato un campionato sbagliato. Non è stato facile: per me sono state le prime volte in cui si usciva dallo stadio tra le contestazioni, con la gente che ti picchiava sui vetri perché andava tutto storto”. Per la squadra, un po’ meno per Pessotto, che riesce a ritagliarsi il suo spazio e soprattutto a infilare buone prestazioni in partite importanti. Così, mentre i rossoblù scendono di categoria, per lui arriva la chiamata del Verona di Bortolo Mutti. All’epoca non può saperlo, ma con tre gol in trentaquattro partite rimarrà l’avventura più prolifica della sua carriera. L’Hellas gli dà visibilità e soprattutto uno degli amici che il calcio gli ha regalato, e che ritroverà anni dopo. In quella squadra, infatti, gioca anche un giovanissimo Filippo Inzaghi, reduce dai 13 gol segnati in Serie C1 al Leffe: “Abbiamo legato molto – racconta Pessotto – in un certo senso eravamo due scapoloni, anche se io ero fidanzato e lui no. Lui segnò tantissimo, esplose. Per me è stato un punto di svolta, anche se il finale è stato complicato”. Il finale, infatti, è amaro: Pessotto a Verona si trova benissimo, a un certo punto della stagione si lascia andare a dichiarazioni di amore incondizionato: sono le parole di un ragazzo di ventitré anni, ma quando arriverà la chiamata dalla Serie A la piazza non lo capirà. “Io alla A non ci pensavo proprio, non immaginavo ci potessero essere interessamenti – confessa Pessotto – e poi ero abituato a pensare solo al presente, step by step. Così, nei momenti felici ho dichiarato amore eterno al Verona. Per questo, quando è diventato chiaro che sarei andato via ho subito attacchi personali e offese. Mi è dispiaciuto, soprattutto quando ci sono rimasti male i miei genitori che erano venuti a vedermi allo stadio. E io mi sono reso conto di aver detto delle parole di petto, una cosa che non si deve mai fare. Nel calcio mai dire mai. Anche se io ero davvero convinto di quello che avevo detto quando l’ho detto, perché ero convinto che Verona fosse il massimo a cui potessi aspirare. Mi rendo anche conto che aver fatto marcia indietro sia stato brutto. Però non è vero che lo feci per soldi: non sono stati mai un movente nella mia carriera. E quindi quella contestazione alla fine mi ha fatto da stimolo: tutto fa scuola, nel calcio come nella vita”. Così, le cattiverie diventano il motivo per dare qualcosa in più. Perché nel frattempo è arrivata la chiamata della Serie A. Di più, è arrivata la tappa della vita: Torino. Non ancora, però, con i colori bianconeri.
Pessotto granata. A Verona, la stagione si chiude con un dodicesimo posto in classifica abbastanza ordinario. Per Gianluca – così come per Inzaghi - è un trampolino di lancio. A fine stagione, oltre che ai gialloblù, Pessotto dice addio anche al Milan: per la prima volta, il club rossonero lo cede a titolo definitivo. Non si ritroveranno più, se non da avversari. Braida, friulano come lui e all’epoca direttore sportivo del settore giovanile del club, glielo aveva detto chiaramente: lo avrebbe lasciato andare solo quando sarebbe arrivata l’offerta giusta per lui. Quella squadra gioca in Piemonte, a Torino, ma non è la Juventus: il primo impatto con la Mole Antonelliana è in maglia granata. Stagione 1994/1995, l’ultima prima che Bosman rivoluzioni il calcio. Annata così così: in panchina inizia Rampanti, poi si avvicenderanno Lido Vieri e Nedo Sonetti. La prima di campionato, con Pessotto in campo dall’inizio, è da dimenticare: 0-2 al Delle Alpi contro l’Inter. “Per me il Torino – ricorda a TuttoC - rappresentava l’apice della carriera in quel momento. Non ci ho pensato due volte. Era una squadra giovane e che puntava sui giovani: ci si prendeva dei rischi, ma era anche l’occasione giusta per crescere ancora, muovere i primi passi in A, conoscere un calcio diverso, di vertice. Non siamo partiti benissimo, dopo alcune brutte prestazioni c’è stato l’esonero di Rampanti e l’arrivo di Sonetti. Da lì, è iniziata una stagione molto positiva. La società non ci aveva chiesto altro obiettivo che la salvezza: a un certo punto abbiamo anche pensato di poter fare di più, ma alla fine ci siamo consolidati attorno a una posizione di metà classifica”. Poco lontano, la Juventus ha intanto chiamato un giovane allenatore capace di portare il Napoli al sesto posto in classifica. Si chiama Marcello Lippi e sulla carriera del nostro protagonista avrà una certa importanza. Nel ‘94/95 si appresta a vincere il suo primo scudetto: ai bianconeri manca da dieci anni. Pessotto e il Torino, però, trovano anche il tempo di fare uno sgambetto ai concittadini, anzi due: “In quel campionato abbiamo vinto entrambi i derby, per noi era come alzare uno scudetto. La Juve ha vinto tante altre partite: diciamo che abbiamo contribuito a mantenere alta la tensione di una squadra veramente forte, battendola in due partite davvero incredibili”. Il Toro che vince due derby in stagione: roba di altri tempi. In quel momento, Pessotto non sa ancora cosa gli succederà in estate.
La chiamata della Juventus. L’estate del 1995 è di quelle difficili da dimenticare. Pessotto celebra due matrimoni: quello con Reana, conosciuta ai tempi di Varese. E quello con la Juventus, a cui legherà il resto della sua vita. Da tifoso milanista, da calciatore granata: “Potrebbe essere un bel film, una bella fiction – scherza – francamente, non me lo sarei mai aspettato, anche perché è stata una cosa nata veramente all’ultimo. Sapevamo che il Torino avesse in programma di vendere alcuni giocatori tra i più interessanti, e io sapevo di poter essere tra questi. Ma si parlava di altre squadre: quando mi hanno detto della Juventus, un altro po’ muoio… Mi sembrava un sogno”. Ai passaggi traumatici, in fin dei conti, ci è abituato: abbiamo già ricordato la pesante contestazione subita a Verona. Qui, però, c’è tanto di diverso: “Beh, non ho neanche dovuto cambiare casa. Anzi, ero ancora più vicino al campo di allenamento. Devo dire che alla fine il passaggio più complicato da gestire è rimasto quello dall’Hellas al Toro, anche se quando sono andato alla Juve sono spariti un po’ tutti quelli che mi stavano intorno. Sono gli amici che ti rimangono vicini”. Del Torino, Pessotto conserva comunque un bel ricordo. E viceversa: “Penso che i tifosi abbiano sempre apprezzato la mia onestà intellettuale. Al cinquantenario della scomparsa del Grande Torino sono stato invitato e sono andato molto volentieri. Anzi, per me è stato un onore: penso ci siano cose che non hanno bandiera, che vanno oltre la maglia che indossi, oltre i colori”. Sulla Juve, ovviamente, nessun dubbio: “È stata la cosa più bella che mi potesse capitare”. Il primo a chiamarlo è Marcello Lippi: “Pensavo fosse uno scherzo. Io non lo conoscevo e ci ho messo un quarto d’ora a convincermi che fosse davvero lui. Non ci potevo credere, è bastato quel piccolo gesto a farmi sentire parte della famiglia”. L’impatto è traumatico, per quello che la Vecchia Signora pretende dai suoi giocatori. Pessotto, venticinquenne, è tra i più giovani in una squadra che ha appena vinto lo scudetto: “I primi mesi sono stati un po’ complicati. Entravo in un gruppo molto unito, nel quale ero il più giovane dopo Tacchinardi e Del Piero: nel torello toccava a noi andare in mezzo. E io sono rimasto impressionato dalla determinazione di quel gruppo di giocatori fantastici. Dato che sono anche un tipo abbastanza silenzioso di mio, ho pensato che l’unico modo di mettermi al pari fosse lavorare al massimo, soprattutto sotto il profilo mentale. Sai, tecnicamente il confronto puoi anche reggerlo: è nella determinazione, nella capacità di puntare gli obiettivi, che si fa la differenza. Alla Juve ho ritrovato quello che da ragazzino avevo già vissuto al Milan, e quella si è confermata un’ottima scuola”. A colpire Pessotto è una cosa su tutte: di solito, quando si lavora sulla parte atletica, gli attaccanti sono i meno impegnati. Sono i creativi, gli estrosi, quelli che ti possono e devono decidere la partita con una giocata: perché stancarsi? Alla Juve, non funziona così: “Davanti a tutti c’erano Vialli, Ravanelli e Del Piero. Quelli che tiravano il gruppo erano loro. Una roba pazzesca, lì mi sono detto: se voglio stare con questi qui, devo pedalare”. Gianluca Vialli, d’altra parte, è il capitano, il leader carismatico di una squadra che ne ha tanti: “C’era lui, ma c’erano anche Deschamps, Ferrara, Peruzzi. Difficile sceglierne uno. E lì ho capito un’altra cosa: la fortuna delle squadre sono quelli che non giocano o giocano meno. Se loro hanno la capacità di tenere sul pezzo chi ha più spazio, la squadra va più forte. Certo, il merito è di chi gestisce il gruppo, ma dallo spogliatoio si capiva che quella Juve avrebbe fatto grandi cose”.
Buona la prima. Pessotto arriva alla Juventus, si è detto, nella stagione 1995/1996. Non è un’annata qualsiasi, non lo è neanche oggi, a distanza di ventisei anni: il 22 maggio, all’Olimpico di Roma, i bianconeri alzeranno la loro seconda, e per ora ultima, Coppa dei Campioni. “Fu la partita perfetta – ricorda Pessotto – partivamo protagonisti, non favoriti. Di fronte c’era comunque l’Ajax che aveva vinto il trofeo l’anno precedente. Noi siamo stati perfetti per tutta l’annata, e ci siamo arrivati nel migliore dei modi. E comunque ce la siamo dovuta sudare ai rigori. Però non so come dirlo: sin dall’inizio avevo la sensazione che potesse essere l’anno giusto. Anche perché non potevamo perdere un’occasione più unica che rara, come quella di giocare la finale in casa, a Roma”. In campionato, non è una Juve particolarmente felice: parte male, perde subito terreno rispetto al Milan di Capello, alla fine chiuderà seconda ma con sette punti di ritardo. In Champions, si trasforma: “Giocavano male in Serie A e alla perfezione in Europa. Per questo, dicevano che avessimo fatto la preparazione in ottica Champions. Ma è un’assurdità: giocavamo ogni tre giorni, la preparazione era sempre la solita. Semmai, a livello mentale ci concentravamo di più. Questo può essere vero, magari a livello inconscio”. Una volta conquistata, la coppa dalle grandi orecchie diventerà una sorta di maledizione per i colori bianconeri. Pessotto giocherà altre tre finali da calciatore: a Monaco contro il Borussia Dortmund, ad Amsterdam contro il Real Madrid, a Manchester contro il Milan. Le perderà tutte, a distanza di anni per la Juve arriveranno anche Berlino e Cardiff: “Io posso parlare solo per le partite che ho giocato. E, se prima dicevo che a Roma abbiamo disputato la gara perfetta, non posso dire altrettanto nelle altre occasioni. In due casi su tre partivamo favoriti, sulla carta avremmo dovuto vincere noi: col Real no, col Real non parti mai favorito. Non siamo più riusciti a replicare quella partita perfetta”.
Gli allenatori, i compagni, il professorino. Alla Juve, come sa qualsiasi lettore, Pessotto ci rimane. Da calciatore fino al 2006: “Capello voleva che facessi un altro anno – rivela – gli piaceva il mio ruolo di leader silenzioso, di grande vecchio, anche se non giocavo più molto. Poi però è arrivata Calciopoli ed è cambiata la mia vita”. Don Fabio è stato l’ultimo allenatore avuto alla Juventus, di una serie non lunghissima: Lippi, Ancelotti, Lippi, Capello. Madama, si sa, cambia di rado la panchina e spesso torna sui suoi passi. Nessuno, ça va sans dire, può rappresentare per Pessotto quello che è stato Marcello Lippi: “È l’allenatore che ho avuto per più anni, quello a cui ho legato la maggior parte della mia carriera”. Con Capello, come detto, il rapporto è buono anche se il professorino, come lo hanno soprannominato a Torino, è ormai diventato quasi emerito. Già, quel soprannome, legato alla sua passione per i grandi classici della letteratura e per quella laurea in giurisprudenza che da dietro la scrivania gli tornerà utile. Gli è mai piaciuto? “Dipende – spiega – sì, se riferito al mio modo di vestire, questa mia passione per i libri. No, quando diventava un termine dispregiativo, per ghettizzare la categoria di quei calciatori a cui, come me, piace leggere, magari anche dei testi un po’ più complicati. Io non mi sono mai sentito diverso”. Lippi e Capello, ma tra gli allenatori di Pessotto figura anche un altro nome: Carlo Ancelotti. Un tecnico che è diventato grandissimo, ma a Torino non è ricordato con particolare trasporto dai tifosi. Colpa di due scudetti sfuggiti all’ultimo, in un rapporto mai sbocciato con l’ambiente: “Il mister arrivava dall’esperienza di Parma, era la prima volta che si proponeva a livelli importanti, e direi che poi in carriera ha dimostrato… Quelle due stagioni non sono state fortunate per diversi motivi, ci sono stati anche episodi particolari”. Uno su tutto, protagonista il diluvio. 14 maggio 2000, Perugia-Juventus: “Un caso più unico che raro. In realtà, non tanto per il terreno su cui si è giocato, ma per tutto quello che è successo prima. L’attesa è stata davvero snervante, anomala”. Lo scudetto lo vincerà la Lazio, l’anno dopo toccherà la Roma, a cavallo del Giubileo. Non bastano la pioggia e un 2-2 segnato dagli errori di van der Sar, a spiegare cosa non abbia funzionato tra la Juve e Ancelotti: “La cosa che ho notato, specie rispetto a un tratto distintivo della sua carriera negli anni successivi, è che mi sembra si sia affezionato meno ai giocatori in quell’esperienza. A Parma aveva Crespo: anche se per qualche partita non segnava, lo metteva comunque in campo e alla fine l’argentino lo ripagava. A Torino, per esempio, doveva gestire la competizione fra Inzaghi e Trezeguet. Ma non è stata tutta colpa sua: quando perdi tanti punti di vantaggio, la responsabilità è di tutti. Noi giocatori siamo arrivati un po’ vuoti ai momenti cruciali di quelle due stagioni”. Quattro allenatori, tantissimi compagni. Se gli chiedi chi sia stato il più forte, dribbla come a molti di loro riusciva sul campo: “Sempre meglio non rispondere, fai un torto a qualcuno. Di solito nomini gli attaccanti, perché fanno quello che tu non sai fare. E io da questo punto di vista ho giocato con gente come Zidane, Del Piero, Inzaghi, Trezeguet, Nedved. Meglio non scegliere. Anche Ibra: era giovane, ma si vedeva che aveva delle qualità strepitose. Ho avuto la fortuna di giocare con i migliori del mondo – scherza - a cui il mio compito era passare la palla il più velocemente possibile”. Un nome, alla fine, lo fa. Non il più forte, ma quello che sarebbe potuto diventare una stella: “Io rimasi impressionato da Boksic. Aveva tutto: fisico e tecnica. Non sempre riusciva a tradurre la sua qualità in gol e questa è stata l’unica pecca di una carriera comunque di altissimo livello”.
L’Italia e il presente. Prima di arrivare al giorno d’oggi, c’è un capitolo che non abbiamo toccato. Quello azzurro: Pessotto ha fatto parte di una generazione d’oro del calcio italiano. Che però non ha vinto Europei o Mondiali, e il rimpianto maggiore resta il 2000: “Sarei un ipocrita se dicessi il contrario. Del ‘98 non restano grossi rammarichi: quando giochi il Mondiale in casa della Francia, la incontri a Saint-Denis e perdi ai rigori, cosa puoi rimproverarti? Poi hanno vinto la semifinale con la Croazia con due gol di Thuram: con lui ho scherzato spesso al riguardo, era evidente che fosse il loro anno”. Nel 2000, invece, è tutto diverso: l’avversario è sempre la Francia, ma questa volta in finale. L’Italia ci arriva dopo una semifinale epica, con una lunghissima serie di rigori contro l’Olanda, da molti considerata favorita. Il clima che circonda la nazionale è molto particolare: il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, critica apertamente Dino Zoff. Lo fa prima dell’Europeo e lo farà anche dopo, portando alle dimissioni del ct: “Diciamo che non c’era grandissima fiducia – ricorda Pessotto – ma il mister è stato bravissimo a compattare il gruppo, abbiamo tratto forza da quelle critiche. Resta il grande rimpianto di una squadra partita in sordina e che ha creato grandissimo entusiasmo. Tra l’altro abbiamo perso la partita giocata meglio”. Negli occhi, oltre alla rete nel finale di Trezeguet e poi al golden gol di Wiltord, rimane appunto la gara contro l’Olanda: “Toldo avrebbe parato qualsiasi cosa quella sera. Ogni tanto riguardo quei rigori, e penso sempre che potrebbero finire in un altro modo. Ma alla fine vinciamo sempre noi. Quanto alla finale, resta una lezione: basta un secondo a cambiare una partita, ma anche la carriera di un calciatore. Ed è quello che dico ai giovani adesso”. Oggi, infatti, Pessotto resta un punto di riferimento fondamentale per la Juventus. L’unica società italiana ad aver puntato sulle seconde squadre, con l’Under 23 impegnata nel girone A di Serie C. Un progetto che, anche su queste pagine, abbiano definito tante volte importante, ma nessun altro ha finora seguito: “Secondo me – dice Pessotto – a parte la Juventus nessuno lo considera davvero importante. Ed è un peccato: dopo la Svezia, ci sono state tante parole, sembrava potesse essere un punto di svolta importante. Invece sono passati quattro anni e siamo rimasti da soli, pur avendo avuto degli interlocutori incredibili come la FIGC e la Lega Pro col presidente Ghirelli. Eppure ci sono nazioni che lo fanno da anni: si vede che qualche risultato lo hanno ottenuto. Il Portogallo, per esempio, aveva rinunciato alle seconde squadre e poi le ha fatte ripartire: si sono resi conto che c’erano dei buchi generazionali. Noi pensavamo e pensiamo che possa essere un anello di congiunzione fondamentale. Certo, mi rendo conto che non sia semplice: la seconda è una squadra a tutti gli effetti. Comporta oneri, organizzazione, uno stadio in cui giocare. Non è semplice, ma penso che sia importante. Quando racconto la mia storia, parlo della C come di uno step fondamentale. Oggi abbiamo la possibilità di aiutare i nostri ragazzi ad affrontarlo, perché le seconde squadre diminuiscono il rischio: qualche giocatore lo perdi comunque, qualcun altro arriverà comunque, ma molti li salvi. I numeri sono confortanti, abbiamo registrato un aumento esponenziale di presenze in prima squadra da parte di calciatori cresciuti nel nostro settore giovanile. E l’obiettivo è avere giocatori formati nell’Under 23 che entrino in pianta stabile in prima squadra. Ma, ripeto, essere da soli non aiuta: avere altre seconde squadre consentirebbe di scambiarsi informazioni, crescere assieme, ragionare di sistema. È un peccato che non sia così, anche perché noi siamo molto contenti dei risultati che abbiamo ottenuto finora”.